La lotta è una delle espressioni umane più antiche che esistano. Gli ateniesi, nel V secolo a. C., la includevano nella παιδεία, cioè nell’educazione che si impartiva ai ragazzi per trasformarli in cittadini. Lottare era tanto importante quanto conoscere a memoria Omero o Esiodo. Oggi, invece, questa pratica è piuttosto marginale (1), quando non addirittura stigmatizzata come violenta; prevale un tipo di educazione prettamente intellettualistico, dove lo sport assolve soltanto allo scopo di prevenzione di patologie. Eppure, la spinta alla lotta è naturalmente presente nei bambini, così come risulta onnipresente in natura. Prima di liquidarla come pratica violenta, bisogna cercare di capire perché essa si trova in ogni specie animale.
Roberto Marchesini scrive (2) che “le prove di forza tra giovani non riguardano solo i nostri bambini, che non di rado nei cortili delle scuole s’inseguono, si spingono e si rotolano avvinghiati l’un l’altro. Fin da piccoli gli animali provano la loro potenza e lo fanno, ovviamente, giocando”. Ad esempio, nei carnivori il “play fighting” (traducibile con “gioco-lotta”) è una simulazione di “attività d’interazione competitiva, predatoria, sessuale”, dove tuttavia il desiderio di autoaffermazione è basso e la cooperazione alta: questo consente una vera e propria turnazione fra attaccante e difensore, predatore e predato. I canguri invece, mettono in gioco diverse forme di lotta, “che vanno dalle zampate al rallenty a vere e proprie sessioni di pugilato”.
“Ecco allora che la dimensione ludico-competitiva rappresenta una sorta di tatami attraverso cui l’individuo impara a disciplinare le proprie vocazioni sociali, trasformandole in competenze. In altre parole, possiamo dire che la socialità si avvale del gioco giovanile per la costruzione di uno stile sociale compatibile alla convivenza. Si tratta di un seminario articolato ove l’innato, il retaggio ricevuto dai progenitori e messo a punto dalla filogenesi, si mette a disposizione delle occasioni che l’esperienza pone di fronte all’individuo.”
La lotta è allora, in generale, un modo sociale di disciplinare il comportamento del singolo per educarlo alla convivenza e alla sopravvivenza. Ma, in pratica, come avviene questo “disciplinamento” sociale? Per rispondere, si prenda in considerazione l’articolo di M. Pellis e V. C. Pellis, “What is play fighting and what is it good for?” (3). Si tratta di uno studio del 2017 basato prevalentemente sulla lotta fra topi, ma confrontato anche con altre specie come maiali, scimmie, degu, ecc.
Nella prima parte dell’articolo si descrive il tipico play fight fra topi, sottolineando che i pattern di attacco sono nella maggior parte dei casi diversi da quelli utilizzati nelle aggressioni vere e proprie. Si prenda ad esempio il caso in figura: il pattern a, con le zampe posteriori a terra, è quello che si presenta maggiormente nei play fight rispetto al pattern b, con tutte e quattro le zampe sopra al ratto schienato. Eppure, il pattern a porta ad un attacco efficace nel 30% dei casi, mentre il pattern b nel 70% dei casi.
In generale, Pellis e Pellis forniscono tre condizioni per distinguere un play fight da una lotta vera e propria:
- non ci sono risorse da guadagnare o da proteggere;
- non ci sono infortuni;
- alta probabilità di inversione dei ruoli tra attaccante e difensore.
Può accadere, infatti, che un play fight degeneri in confronto reale: in tal caso aumentano i livelli di aggressività, gli schemi di attacco sono più efficaci e non si dà possibilità di invertire i ruoli, arrivando fino alla completa sottomissione di uno dei due soggetti. Altrimenti, l’adozione di pattern meno efficaci diminuiscono sensibilmente le occasioni di infortunio e danno l’occasione al difensore di ribaltare la situazione e passare all’attacco. Nel primo caso, la serietà del confronto serve a stabilire gerarchie, ad accaparrarsi una compagna o una risorsa; nel secondo caso, si tratta di un’esperienza formativa a tutti gli effetti, dove anche il meno dotato ha occasione di imparare e crescere. Comunque sia, sembra che una comunità formata da animali coscienti del proprio “livello lottatorio” sia tendenzialmente una comunità più “pacifica”, ovvero con percentuali minori di combattimenti rispetto a un’altra dove questa consapevolezza manca (4).
Il play fight, sostengono gli autori, essendo una competizione ristretta, richiede ai partecipanti di monitorare con continuità le loro stesse azioni e quelle del partner (attenzione a non far male, rendersi volutamente vulnerabili per dare l’opportunità all’altro di attaccare, ecc.). Questo tipo di esercizio consente di aumentare l’attenzione, la memoria a breve termine, il controllo degli impulsi e delle emozioni, consentendo una migliore risposta in caso di situazioni inaspettate e potenzialmente pericolose. I ratti allevati in isolamento da giovani mostrano alti livelli di stress e di ansia di fronte a situazioni di pericolo; sono iperdifensivi nel confronto con gli altri, molto più aggressivi e con una risposta agli stimoli più rapida e accentuata di quanto sarebbe appropriato. Naturalmente, gli autori sono consapevoli che allevare ratti in isolamento li priva di molti altri elementi oltre al play fight; ma il fatto che questi mostrano evidenti lacune proprio dove ci si aspetta che il play fight agisca, fa supporre che la sua mancanza abbia quantomeno contribuito a creare queste forme di handicap sociale.
Concludendo, la lotta sembra avere un ruolo educativo fondamentale “nell’interazione, sia per la reciproca conoscenza somatica che per imparare le regole della relazione intraspecifica” (2). Per gli uomini, come per il resto del mondo animale, la lotta coinvolge e assimila i campi della “cooperazione, comunicazione, capacità di gestire la frustrazione, ritualizzazione dell’espressione aggressiva” (2). Lo avevano forse capito gli ateniesi, che la consideravano parte integrante della formazione dell’adulto di domani; dobbiamo forse reimpararlo noi uomini contemporanei, riscoprendo le nostre radici culturali (gli antichi greci) e naturali (il mondo animale).
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(1) Ad eccezione di alcune zone del pianeta, come gli USA, dove il wrestling viene praticato nei college, alcuni stati asiatici da cui provengono grandi campioni nelle discipline lottatorie e il Giappone, patria del sumo, arte che tuttavia conosce da tempo una grande crisi di atleti.
(2) https://www.corriere.it/animali/18_gennaio_22/importanza-essere-cuccioli-lotte-gioco-come-scuola-vita-interazione-sociale-acf2fdf8-ff94-11e7-8956-3bd9e98ac74a.shtml
(3) https://link.springer.com/article/10.3758/s13420-017-0264-3
(4) https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0022519304003431?via%3Dihub