Dopo un accurato e approfondito studio del tema, il signor S. si sfilò gli occhiali da lettura e si terse il sudore dalla fronte, col piglio del chirurgo che opera da ore chino sul corpo aperto di un paziente. Poi si tirò in piedi con una smorfia, emergendo dalle cataste disordinate di libri che affollavano la sua scrivania, andò alla finestra del suo studio, fissò qualcosa di molto lontano, e con le mani allacciate dietro la schiena scandì le seguenti parole: “caro Mister Wu, ora posso dire con certezza che abbiamo a che fare con qualcosa che sicuramente non è morto… ma possiamo dare per certo che non è nemmeno vivo”. Mister Wu, per tutta risposta, boccheggiò languidamente, emettendo una bolla che restò a lungo sul pelo dell’acqua. Il signor S. parve accorgersi della reazione apatica, quasi tediata del suo pesce; forse era stufo delle sue tipiche frasi ad effetto. Riprese allora il discorso, ma stavolta senza la ricerca di effetti speciali: “intendo dire che, non avendo metabolismo e facoltà di riproduzione, non possiamo considerarlo appartenente al mondo dei vivi; ma nemmeno possiamo considerare inanimato qualcosa che cerca organismi complessi per moltiplicarsi”. A quel punto distolse lo sguardo dal panorama e si diresse verso l’acquario; si chinò in avanti per guardare dritto negli occhi Mister Wu provando a metterlo alle strette con la forza della logica: “questo ci porta a concludere una sola cosa: abbiamo a che fare con un non-essere vivente”. Proprio in quel momento, l’aeratore dell’acquario entrò in funzione emettendo un basso ronzìo, sputando per qualche secondo un nugolo di bolle che catturò subito l’attenzione del pesce. Il signor S. ne fu irritato.
Era un grande studioso, un erudito vecchio stampo: niente computer, pochi contatti sociali e giornate intere passate fra tomi polverosi che gli avevano consumato la vista. Quando, di rado, usciva di casa, si sentiva in una bolla sospesa mentre il mondo gli mulinava intorno come un fiume in piena. Era come se il tempo, per lui, scorresse più lentamente. S. era anche un eccentrico: amava arguire su qualsiasi argomento alla ricerca di conclusioni paradossali e contraddizioni nascoste che lasciavano interdette le menti di chi lo ascoltava, ma raramente gli capitava di incontrare qualcuno capace di fermarsi e di ragionare con lui. Quando accadeva, si sentiva davvero felice.
Di recente, il peso degli anni si faceva sentire più del solito, e non solo nel corpo. Si era convinto di essere meno brillante di un tempo, e questo lo rendeva triste; allora fumava, passando ore sprofondato nella sua poltrona a meditare su temi astrusi e pittoreschi. Per giunta, l’epidemia lo aveva costretto all’esilio, e le arguzie, si sa, non sono nulla se non sono condivise. S. considerava il distanziamento sociale come un riflesso esteriore di un più profondo allontanamento empatico: il virus aveva ridotto qualsiasi gesto di vicinanza allo spettro emotivo dell’angoscia e della paura. In quel momento, pensava, qualsiasi relazione interpersonale veniva compromessa dalla minaccia del contagio. Ma Mister Wu era fuori da tutto questo; inoltre, sapeva ascoltare come nessun altro, sebbene rappresentasse un “pubblico” davvero difficile.
“Ora”, continuò il signor S., non appena l’aeratore si spense, “bisogna indagare a quali conseguenze questa definizione ci conduce”. Mister Wu sapeva che quella frase era il preludio a una serie di elucubrazioni semantico-filosofiche che si sarebbero risolte in una qualche conclusione a effetto. Lo vide con i contorni incerti e ondeggianti, distorti dall’acqua, lasciarsi cadere sulla poltrona e accendersi un sigaro con cura rituale. “Non-essere vivente, quindi innanzitutto ‘non essere’. Cosa intendiamo dire in generale con questo concetto? Due sono le traduzioni possibili. La prima è ‘niente’. L’oggetto in questione allora sarebbe un niente che vive, e che vivendo, nullifica.” Il signor S. pose molta enfasi su questa ultima parola. Prese una corposa boccata dal sigaro, e continuò: “La seconda è ‘mancanza’. Se pensiamo il virus in termini informatici, e l’analogia non è forzata, esso è in buona sostanza una stringa di codice mancante, che abbisogna di codice esterno per completarsi e replicarsi. È quindi una mancanza vivente in cerca di forza procreativa; vuole essere un vivente a tutti gli effetti, e per diventarlo deve generare”. Altra pausa, altra boccata di fumo; dall’acquario, le spirali esalate, insieme al languido dondolìo dell’acqua, rendevano la scena quasi onirica. “Dunque concludiamo”, riprese il signor S.: “il virus è un niente che nullifica vivendo, e un qualcosa che vivifica nullificando”. A quel punto, un’aria di trionfo animò il volto del signor S.; si volse tronfio a guardare nell’acquario, col sigaro in bilico a un’estremità della bocca.
Non appena sentì lo sguardo esultante su di sé, Mister Wu dette un colpo deciso di pinna caudale e con un guizzo scattò rapido per tutto il perimetro dell’acquario, tornando al punto di partenza. Seccato da quei futili sofismi, non riuscì più a trattenersi: “hai un bel coraggio a esibirti in giochi di parole in un momento come questo! Come puoi non avere neanche un briciolo di paura? Eppure sei il tipico soggetto a rischio!”. Il signor S. proruppe in una fragorosa risata, e fu tanto soddisfatto quanto stizzito era il pesce. “Mio caro Wu” disse poi, ricomponendosi, “come scrisse Catullo, ‘quando muore il nostro breve giorno, una notte infinita dormiremo’. Per te invece è utile darsi pena per un minuto in più o in meno, di fronte alla notte infinita che ci chiama a sé a ogni istante? Che importa quando il destino ha deciso che il nostro breve giorno dovrà finire? Accadrà e basta, che lo vogliamo o no; il quando e il come saranno le ultime cose che sapremo!”. Così parlando, tornò a guardare dalla finestra e si fece pensieroso. “Caro Wu, non temo per la mia vita”, aggiunse turbato, “ma per il futuro di un’umanità costretta a temere il suo stesso istinto sociale”.