“- Avrai notato che gli sportivi puri, quelli che vanno tutti i giorni in palestra, sono brutali e rozzi, e che i fanatici della musica [e della poesia]… sono decisamente rammolliti?
– Sì lo so, e allora?
– Per prima cosa la brutalità degli sportivi deriva da un’energia affettiva che, se ben indirizzata, diventerebbe coraggio, ma che, esasperata dalla ripetizione degli esercizi, è solo durezza informe. In secondo luogo, la dolcezza insipida del fanatico di poesie musicate deriva da un’indole contemplativa propizia alla filosofia che, ben indirizzata, sarebbe calma e precisione, ma che, troppo dilatata, s’inabissa in un’inaccettabile mollezza.
– È tutta questione di dosaggio, allora?
– Diciamo di equilibrio fra le discipline. Abbiamo detto che i nostri guardiani devono combinare un vero coraggio nell’ordine dell’affetto con un’autentica indole filosofica nell’ordine dello spirito. Il problema sta tutto nell’armonizzare le due cose, che darebbe al soggetto costanza e temperanza.”
Questo breve passo di Alain Badiou, tratto dalla sua “Repubblica di Platone”, mi sembra molto pertinente al dibattito che c’è stato sul terribile omicidio di branco avvenuto a Colleferro, dove ha perso la vita il giovane Willy Monteiro Duarte.
Non dirò nulla sul ragazzo deceduto; il silenzio mi sembra l’unica forma possibile di rispetto verso i familiari che lo hanno perso.
Non dirò nulla nemmeno sulla punizione che meritano i carnefici. L’uomo da sempre si adopera col massimo ingegno nel misurare e nel commisurare, ma la realtà è che non esiste simmetria nella giustizia. Un omicidio (se non erro lo ha scritto Derrida) è la fine di un universo di possibilità, e per questo non può esistere gesto riparatorio.
Citando Badiou ho già detto la mia sul culto della forza che tanti ragazzi sembrano abbracciare, non avendo altre alternative praticabili (perché noi non gliele diamo). Non esiste esercizio della forza lecito al di fuori del “coraggio del guardiano”. Il guardiano, come lo concepisco io, estrapolandolo da Platone e Badiou, è colui che riconosce il bello e il fragile, e lo protegge avendone cura. Affinché avvenga questo riconoscimento non si può fare a meno di accompagnare l’esercizio fisico a quello intellettuale, frequentando la palestra migliore che abbiamo, la filosofia. Se manca l’abbonamento a questa fondamentale palestra, diventiamo distinguibili dalle scimmie solo per mancanza di pelo.
Infine, due parole sulle MMA e sugli sport di contatto in genere. Osserviamo queste due immagini:
A sinistra, una scena di lotta nel pancrazio, una delle discipline olimpiche per eccellenza risalente al VII secolo a. C., dove tutto era consentito tranne mordere e accecare. In particolare, si rappresenta una sottomissione per strangolamento. Nella seconda immagine, vi è una scena delle MMA del 2019: Askren sottomette Lawler per strangolamento, lo stesso usato dall’atleta ritratto 2700 anni fa circa. Oggi questa tecnica è conosciuta come “bulldog choke”.
Nell’antica Grecia l’attività sportiva aveva un ruolo centrale nella formazione della persona e del futuro cittadino. Oggi si è persa completamente la dimensione formativa dell’esercizio fisico, limitandolo alla funzione salutistica. In verità l’educazione del corpo influenza positivamente lo sviluppo del pensiero e tempra lo spirito; viceversa, lo studio intellettuale indirizza eticamente la prassi del corpo.
Il confronto fisico, la lotta, il combattimento, sono tratti che caratterizzano nel profondo la natura degli uomini, sia gli antichi greci che quelli di oggi. A mio modo di vedere, non si tratta in alcun modo di violenza, ma di espressione di istinti domati dall’arte (di Aρης, o Marte). Chiunque si trovi su un ring, in un ottagono o su una materassina, lo fa per scelta, accettando le regole del confronto e le sue conseguenze. Colpire il proprio avversario, sottometterlo e proiettarlo al suolo, non possono dirsi azioni violente, perché la loro eventualità è stata preventivamente accettata. Ogni lottatore sa che qualsiasi tecnica che gli si consente di fare è anche una tecnica che può subire. Fare violenza significa invece esercitare la propria aggressività, fisica o verbale, contro la libertà e la volontà di un altro soggetto. Non è un caso che in ogni tipo di sport di contatto c’è un gesto convenzionale che sancisce istantaneamente la fine del confronto: il “tap” nella lotta per sottomissione e il lancio dell’asciugamano nella boxe sono due esempi molto noti. Queste ammissioni di sconfitta veicolano anche il messaggio implicito: “non accetto più di sottostare alle regole del confronto”; solo nel caso in cui, per assurdo, l’incontro continuasse anche dopo questa dichiarazione, si potrebbe parlare opportunamente di violenza. Ogni evento sportivo di contatto, quindi, è un rituale dove due individui accettano di confrontarsi in base a regole condivise, prefettamente consapevoli delle conseguenze, e che può essere in qualunque momento interrotto per volere di almeno uno dei contendenti, se per qualsiasi motivo quelle regole diventano molto svantaggiose per lui (ad esempio, nella boxe se il mio avversario è molto più forte di me, sarà sempre lui a colpirmi, e quindi decido opportunamente di interrompere l’incontro, non riuscendo ad esercitare la mia facoltà di colpire).
Inoltre, in una società altamente impersonale, formale e burocratizzata come quella in cui viviamo, dove i nostri nemici molto spesso sono ‘sistemi’ senza volto, risulta terapeutico recuperare l’intimo e ancestrale rapporto con il nostro corpo per confrontarci a mani nude, faccia a faccia, con un nostro simile; è un rituale – lo stesso che si ripete da migliaia di anni – dove ogni volta affrontiamo la paura, senza possibilità di mentire, alla fine del quale – al di là del nostro lavoro, della nostra istruzione, della nostra estrazione sociale – dimostriamo a noi stessi e agli altri di che pasta siamo fatti.