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In quarantena

Categoria: Pensiero

Dojo

Posted on 2021/10/08 by margarita99

 

Il dojo 道場 non è la palestra.

Il dojo è il luogo dove l’ego si fa da parte per lasciare spazio al sacrificio e alla crescita fisica e spirituale.

Il dojo è il luogo dove le preoccupazioni del quotidiano assumono un peso relativo, vengono messe nella giusta prospettiva, in alcuni casi dissolte.

Il dojo è il luogo dove si getta la maschera. Nel dojo non si è quello che si fa o quello che dicono i titoli acquisiti; si è quello che si è.

Il dojo è il luogo dove si è tutti uguali, ognuno è rispettato in quanto umile praticante e non per quello che fa. Tutti imparano da tutti, ognuno è maestro in qualche modo.

Il dojo è il luogo dove si conosce se stessi.

Il dojo non è la palestra, il dojo è ovunque.

Posted in Corpo, Pensiero

Virus, Esistenza e Morte tra Žižek e Badiou

Posted on 2021/03/14 - 2021/03/14 by margarita99

1. Dobbiamo “resistere alla tentazione di trattare l’epidemia attuale come se rivestisse un significato più profondo: la punizione crudele ma giusta dell’umanità per lo sfruttamento implacabile delle altre forme di vita sulla Terra o cose del genere… Se cerchiamo un messaggio nascosto, restiamo premoderni: trattiamo il nostro universo come un interlocutore nella comunicazione. Anche se la nostra stessa sopravvivenza è a repentaglio, c’è qualcosa di rassicurante nel fatto che veniamo puniti – l’universo (o persino Qualcuno lassù) ci guarda…” (Žižek, Virus).
L’uomo conserva, sotto un più o meno spesso strato di sovrastrutture, la tendenza ancestrale al Padre primordiale dell’orda, in politica come in religione, ambiti non per caso strettamente correlati agli albori delle civiltà umane. Che la natura ci punisca per il nostro cattivo comportamento è un grande sollievo perché la punizione presuppone un Padre e dunque una Legge, entrambe figure importanti per la formazione della soggettività e tuttavia oggi mancanti, al tramonto.
Il ritorno al premoderno di cui parla Žižek emerge chiaramente nella forma della New Age, un calderone dove confluiscono pseudo-filosofie, pezzi di spiritualità e pratiche orientali decontestualizzati e riadattati ai canoni occidentali; in generale, forme ingenue e superficiali di “ritorno” a “madre natura”.
“La cosa davvero difficile da accettare è il fatto che l’epidemia in corso sia il risultato di una contingenza naturale allo stato puro, che sia semplicemente avvenuta e non celi nessun significato riposto.” (Žižek, Virus).
2. “In termini più generali, la cosa da accettare, con cui riconciliarci, è che c’è un sostrato di vita, la vita non-morta, stupidamente ripetitiva, pre-sessuale dei virus, che da sempre sono qui e che staranno per sempre con noi come un’ombra oscura, insidiando la nostra sopravvivenza… le epidemie virali ci rammentano la contingenza ultima e l’insensatezza della vita: per quanto spettacolari possano essere gli edifici spirituali che noi fondiamo, una stupida contingenza naturale come un virus può decretarne la fine.” (Žižek, Virus).
Questo “sostrato di vita”, insensato e meccanico, è lo sfondo (il molteplice puro, direbbe Badiou) da cui viene tratto l’esistere, ex-sistere, “porre fuori”. Ogni esistenza è carpita da questa radice di “vita non-morta”; è una “sovra-esistenza” posta “ai confini dell’in-esistente (il nulla libero della coscienza, l’informe caotico della vita come tale)” (Badiou, Logiche dei Mondi). Ciò che Žižek chiama non-morto, Badiou lo chiama in-esistente: a metà tra la vita (individuale) e la morte, tra l’esistenza e il nulla.
Dunque, esistere significa “essere nel movimento costituente della sovra-esistenza originaria”; ma l’essere preso in questo movimento “vuole anche dire essere nientificato. Infatti, l’atto costituente non avvera la sua sovra-esistenza che nella deposizione (la precarietà, la mortalità) di ciò che esso costituisce… La morte di una vita singolare è la prova necessaria dell’infinita potenza della vita.” (Badiou, Logiche dei Mondi). È in questo senso che Žižek definisce il “non-morto” come il caos della vita come tale: solo nella morte si riafferma l’infinito potere della vita.
La pandemia ci costringe ad un lavoro che è quello della ricollocazione di noi stessi come individui e come specie, non rispetto a un’Entità New Age o premoderna (Dio, Madre Natura, lo Spirito, …) ma nei confronti di una forza che si afferma infinitamente, annullando. Non è un lavoro da poco, per accorgercene basta ascoltare un telegiornale.
Posted in PensieroTagged Badiou, pandemia, virus, Žižek

Sport di contatto e culto della violenza

Posted on 2020/12/12 - 2020/12/13 by margarita99

“- Avrai notato che gli sportivi puri, quelli che vanno tutti i giorni in palestra, sono brutali e rozzi, e che i fanatici della musica [e della poesia]… sono decisamente rammolliti?

– Sì lo so, e allora?

– Per prima cosa la brutalità degli sportivi deriva da un’energia affettiva che, se ben indirizzata, diventerebbe coraggio, ma che, esasperata dalla ripetizione degli esercizi, è solo durezza informe. In secondo luogo, la dolcezza insipida del fanatico di poesie musicate deriva da un’indole contemplativa propizia alla filosofia che, ben indirizzata, sarebbe calma e precisione, ma che, troppo dilatata, s’inabissa in un’inaccettabile mollezza.

– È tutta questione di dosaggio, allora?

– Diciamo di equilibrio fra le discipline. Abbiamo detto che i nostri guardiani devono combinare un vero coraggio nell’ordine dell’affetto con un’autentica indole filosofica nell’ordine dello spirito. Il problema sta tutto nell’armonizzare le due cose, che darebbe al soggetto costanza e temperanza.”

Questo breve passo di Alain Badiou, tratto dalla sua “Repubblica di Platone”, mi sembra molto pertinente al dibattito che c’è stato sul terribile omicidio di branco avvenuto a Colleferro, dove ha perso la vita il giovane Willy Monteiro Duarte.

Non dirò nulla sul ragazzo deceduto; il silenzio mi sembra l’unica forma possibile di rispetto verso i familiari che lo hanno perso.

Non dirò nulla nemmeno sulla punizione che meritano i carnefici. L’uomo da sempre si adopera col massimo ingegno nel misurare e nel commisurare, ma la realtà è che non esiste simmetria nella giustizia. Un omicidio (se non erro lo ha scritto Derrida) è la fine di un universo di possibilità, e per questo non può esistere gesto riparatorio.

Citando Badiou ho già detto la mia sul culto della forza che tanti ragazzi sembrano abbracciare, non avendo altre alternative praticabili (perché noi non gliele diamo). Non esiste esercizio della forza lecito al di fuori del “coraggio del guardiano”. Il guardiano, come lo concepisco io, estrapolandolo da Platone e Badiou, è colui che riconosce il bello e il fragile, e lo protegge avendone cura. Affinché avvenga questo riconoscimento non si può fare a meno di accompagnare l’esercizio fisico a quello intellettuale, frequentando la palestra migliore che abbiamo, la filosofia. Se manca l’abbonamento a questa fondamentale palestra, diventiamo distinguibili dalle scimmie solo per mancanza di pelo.

Infine, due parole sulle MMA e sugli sport di contatto in genere. Osserviamo queste due immagini:

A sinistra, una scena di lotta nel pancrazio, una delle discipline olimpiche per eccellenza risalente al VII secolo a. C., dove tutto era consentito tranne mordere e accecare. In particolare, si rappresenta una sottomissione per strangolamento. Nella seconda immagine, vi è una scena delle MMA del 2019: Askren sottomette Lawler per strangolamento, lo stesso usato dall’atleta ritratto 2700 anni fa circa. Oggi questa tecnica è conosciuta come “bulldog choke”.

Nell’antica Grecia l’attività sportiva aveva un ruolo centrale nella formazione della persona e del futuro cittadino. Oggi si è persa completamente la dimensione formativa dell’esercizio fisico, limitandolo alla funzione salutistica. In verità l’educazione del corpo influenza positivamente lo sviluppo del pensiero e tempra lo spirito; viceversa, lo studio intellettuale indirizza eticamente la prassi del corpo.

Il confronto fisico, la lotta, il combattimento, sono tratti che caratterizzano nel profondo la natura degli uomini, sia gli antichi greci che quelli di oggi. A mio modo di vedere, non si tratta in alcun modo di violenza, ma di espressione di istinti domati dall’arte (di Aρης, o Marte). Chiunque si trovi su un ring, in un ottagono o su una materassina, lo fa per scelta, accettando le regole del confronto e le sue conseguenze. Colpire il proprio avversario, sottometterlo e proiettarlo al suolo, non possono dirsi azioni violente, perché la loro eventualità è stata preventivamente accettata. Ogni lottatore sa che qualsiasi tecnica che gli si consente di fare è anche una tecnica che può subire. Fare violenza significa invece esercitare la propria aggressività, fisica o verbale, contro la libertà e la volontà di un altro soggetto. Non è un caso che in ogni tipo di sport di contatto c’è un gesto convenzionale che sancisce istantaneamente la fine del confronto: il “tap” nella lotta per sottomissione e il lancio dell’asciugamano nella boxe sono due esempi molto noti. Queste ammissioni di sconfitta veicolano anche il messaggio implicito: “non accetto più di sottostare alle regole del confronto”; solo nel caso in cui, per assurdo, l’incontro continuasse anche dopo questa dichiarazione, si potrebbe parlare opportunamente di violenza. Ogni evento sportivo di contatto, quindi, è un rituale dove due individui accettano di confrontarsi in base a regole condivise, prefettamente consapevoli delle conseguenze, e che può essere in qualunque momento interrotto per volere di almeno uno dei contendenti, se per qualsiasi motivo quelle regole diventano molto svantaggiose per lui (ad esempio, nella boxe se il mio avversario è molto più forte di me, sarà sempre lui a colpirmi, e quindi decido opportunamente di interrompere l’incontro, non riuscendo ad esercitare la mia facoltà di colpire).

Inoltre, in una società altamente impersonale, formale e burocratizzata come quella in cui viviamo, dove i nostri nemici molto spesso sono ‘sistemi’ senza volto, risulta terapeutico recuperare l’intimo e ancestrale rapporto con il nostro corpo per confrontarci a mani nude, faccia a faccia, con un nostro simile; è un rituale – lo stesso che si ripete da migliaia di anni – dove ogni volta affrontiamo la paura, senza possibilità di mentire, alla fine del quale – al di là del nostro lavoro, della nostra istruzione, della nostra estrazione sociale – dimostriamo a noi stessi e agli altri di che pasta siamo fatti.

Posted in Corpo, PensieroTagged arti marziali, combattimento, lotta, mma

La Morale Anarchica – Kropotkin contro Kant e Nietzsche

Posted on 2020/05/25 - 2020/05/25 by margarita99

“Lo spirito del fanciullo è debole, è così facile sottometterlo col terrore… Lo rendono timido, ed allora gli parlano dei tormenti dell’inferno; innanzi ai suoi occhi fanno balenare le sofferenze dell’anima dannata, la vendetta di un dio implacabile. Poco dopo gli parleranno degli orrori della Rivoluzione, e sfrutteranno un eccesso dei rivoluzionari per fare del fanciullo un “amico dell’ordine”. Il religioso l’abituerà all’idea della legge per farlo meglio obbedire a ciò che chiamerà la legge divina, e l’avvocato gli parlerà della legge divina per farlo meglio obbedire alla legge del codice.

Così il pensiero della generazione vegnente prenderà questa piega religiosa, questa piega autoritaria e servile nel tempo stesso – autorità e servilismo van sempre di conserva -, quest’abitudine di sottomissione che noi dobbiamo riconoscere purtroppo nei nostri contemporanei.”

Ecco il cuore del problema morale, messo nero su bianco da Kropotkin nel 1890 nell’opuscolo intitolato La Morale Anarchica: la pedagogia. Proprio intorno a quel periodo, se guardiamo in Italia, erano numerosi i pedagogisti che affermavano con forza la centralità dell’insegnamento religioso nella formazione morale del fanciullo (Rosmini, Capponi, Gioberti e soprattutto gli asili di Aporti, precocissime macchine di indottrinamento). Là dove non arrivava la longa manus dei ministri di dio, vi era quella borghese: la scuola doveva infatti formare i giovani per l’entrata nel mercato del lavoro, il che – tradotto – significava fornirgli un’istruzione di base (a volte mascherata da filantropia, come nel caso delle scuole di mutuo insegnamento) per poi impiegarli come forza-lavoro nelle fabbriche. È nelle scuole e nei processi educativi in generale che si genera la morale autoritaria e servilista; come osserva giustamente Kropotkin, le due cose vanno a braccetto. Ogni membro della classe media, anche il piccolo borghesuccio di paese, sa comportarsi da padrone, imitando il modello che ha assorbito da fanciullo (il Padre onnipotente che punisce gli uomini che non seguono la sua parola; il Capitalista sulla vetta della piramide sociale); ma sa comportarsi anche da suddito servile e fidato, senza il quale non vi sarebbero padroni, sempre secondo il modello che gli è stato insegnato da piccolo (la “pecora smarrita” guidata dal prete, il pastore di “anime”; l’ingranaggio del sistema capitalista).

La Morale Anarchica di Kropotkin è figlia del suo tempo, imbevuta di ideali positivisti e di elementi evoluzionistici: tutta la filosofia della seconda metà dell’Ottocento risente pesantemente dell’influenza de L’Origine della Specie di Darwin. Di qui il rifiuto radicale di ogni metafisica e di ogni morale fondata su di essa, giungendo ad inscrivere il bene e il male nel mondo animale: qui questi concetti considerati metafisici si riducono a ciò che è utile per la specie e a ciò che le reca danno. Così, scrive Kropotkin, è buona la formica che condivide con quelle affamate il cibo trovato, com’è buono l’uomo che non accentra avidamente le ricchezze per sé ma le condivide con chi non è abbiente. Entrambi operano per il bene della specie. Questo bene viene definito così da Kropotkin:

“Tratta gli altri come a te piacerebbe di esser trattato da loro in circostanze analoghe.” (cap. VI)

Questa definizione mette in grande imbarazzo l’impianto morale che Kropotkin cerca di sostenere. Esso può essere abbattuto con tre colpi di “filosofia del martello” (l’espressione è nitzscheiana).

I colpo: il prete rientra dalla finestra

Innanzitutto, ecco che il prete, messo alla porta all’inizio dell’opera, rientra dalla finestra. Leggiamo proprio nel vangelo di Matteo:

“Tutte le cose che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la legge dei profeti.” Matteo 7, 12

Come conciliare l’avversione di Kropotkin per i preti che avvelenano la mente del fanciullo con l’etica cristiana e la sua idea di bene che è esattamente la stessa dei vangeli? Bisogna correggere il tiro e dire che, dal punto di vista anarchico, il prete insegna la via corretta dell’agire etico, ma ne rappresenta un cattivo esemplare. Dunque, va spostato il fondamento: dalla metafisica – dio – alla biologia evoluzionista – specie -, in un procedimento che ricorda da vicino il rovesciamento di Feuerbach; ma il nucleo etico non cambia. Il fanciullo è moralmente ben formato dal prete; ora non gli resta che sbarazzarsi di dio (di cui Nietzsche aveva già annunciato la morte qualche anno prima).

II colpo: non capire la Critica della Ragion Pratica

Nel capitolo I, Kropotkin scrive:

“Perché dovrei essere morale? […] dovrei esserlo perché Kant mi parla di un imperativo categorico, di un ordine misterioso che proviene dal fondo del mio io stesso e che mi ordina di essere morale. Ma perché questo imperativo categorico dovrebbe avere maggiori diritti sui miei atti che quell’altro imperativo il quale, di tanto in tanto, mi darà l’ordine di ubriacarmi?

Una parola, nulla più di una parola, non diversamente da quella della Provvidenza o del Destino, inventata per ricoprire la nostra ignoranza!”

È evidente che Kropotkin non ha capito Kant. L’imperativo categorico, che viene definito “ordine misterioso”, è ciò che si contrappone all’agire naturale degli istinti. Se si ammette che l’uomo è capace di arbitrio, ci sono due livelli, ben esemplificati dal mito della biga alata di Platone: da una parte il regno degli istinti (l’agire naturale, non etico), dall’altro il regno dei fini, il mondo ideale dove ognuno obbedisce incondizionatamente alla legge morale. L’uomo si trova nel mezzo: può scegliere – in quanto libero – di aderire ora all’uno, ora all’altro. “L’altro imperativo” che ordina a Kropotkin di ubriacarsi si chiama “massima”, ed è un principio pratico soggettivo che non ha nulla a che fare con la legge morale. Se invece cerchiamo la definizione di legge morale nella Critica della Ragion Pratica, eccola:

“Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale.”

In Fondazione della Metafisica dei Costumi, troviamo altre due versioni dello stesso principio:

“Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo.”

“Agisci in modo che la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice.”

Si tratta, come si vede, di versioni più complesse della stessa definizione data da Kropotkin, che, a quanto pare, era kantiano a sua insaputa. Se l’agire etico, come sostiene, è fare agli altri ciò che si vuole sia fatto a noi, allora significa, esattamente come scrive Kant, che le nostre azioni, per essere etiche, devono considerarsi universali, valide per gli altri e per noi.

Kropotkin, nel capitolo X, si chiede se la sua etica sia egoistica o altruistica, concludendo che non è né l’una né l’altra: è una distinzione fittizia, perché agire altruisticamente per la specie è anche agire egoisticamente per se stessi. La stessa cosa è sostenuta da Kant, in termini diversi, nella Critica della Ragion Pratica. Ma anche leggendo soltanto la terza definizione di legge morale, si coglie immediatamente come il soggetto che agisce eticamente è allo stesso tempo legislatore (la sua volontà è diretta secondo la massima, cioè secondo un principio pratico soggettivo, fondato sull'”io”) e soggetto alla legislazione universale (la sua volontà ubbidisce all’imperativo categorico, cioè coincide con l’oggettività formale e impersonale della legge etica). Anche in Kant, come in Kropotkin, soggettivo e oggettivo, egoismo e altruismo, coincidono nello stesso punto: l’agire etico.

III colpo: Nietzsche e Darwin, il colpo di grazia

Cosa resta allora della morale anarchica, oltre il messaggio evangelico e kantiano? L’agire morale è l’utile della specie, il male ciò che gli reca danno, scrive Kropotkin sotto l’influenza darwinista. Un’influenza però oltremodo superficiale, come ci spiega Nietzsche – che Darwin l’aveva capito molto più a fondo – ne La Gaia Scienza. Se dunque vogliamo parlare di cosa è bene per la specie (e non di cosa è bene in sé), troviamo che tutto ciò che gli uomini sono portati a fare per natura è funzionale alla conservazione della specie. Mentre Kropotkin si aggira nella superficie delle cose, liquidando Kant con una battuta, i preti “in sottana” con un’altra, Nietzsche, questo genio della decostruzione, va al fondo delle cose: non esistono fenomeni morali, solo interpretazioni morali di fenomeni. Kropotkin fa parte della pantomima “stilistica” moraleggiante, con cui si abbelliscono le azioni umane, tanto quanto Kant o i ministri di dio. Mentre l’anarchico che aderisce “un momento sì e l’altro no” all’evoluzionismo si rammarica per la presenza di assassini nella società (ad esempio di Jack lo squartatore), Nietzsche ci spiega che essi fanno il bene della specie tanto quanto i moralisti come Kropotkin: quelli, infatti, contribuiscono alla causa della razza umana conservando e tramandando istinti senza i quali essa non sarebbe potuta – e non potrebbe – sopravvivere. In sostanza, se l’agire morale è l’utile della specie, allora tutto (compreso ciò che comunemente viene ritenuto male) è morale. Questo è il paradosso a cui conduce ogni etica che abbia la pretesa di fondarsi sulla conservazione della specie, come evidenziato magistralmente da Nietzsche ne La Gaia Scienza; questo è il motivo per cui Kant ritiene che non si possa parlare di morale in riferimento all’agire naturale; ed è questo il motivo decisivo per cui La Morale Anarchica di Kropotkin non è niente di più che un documento storico ininfluente dal punto di vista della filosofia morale.

Posted in PensieroTagged anarchia, Darwin, etica, filosofia morale, Kant, Kropotkin, Nietzsche

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