Quel giorno una strana inquietudine mi permeava fin dentro le ossa; forse per la notte agitata dagli incubi che avevo passato – incubi di cui mi restavano solo sensazioni diffuse di malessere e follia, come se al risveglio fossi tornato da un mondo alieno, talmente incomprensibile e distante da ciò che chiamiamo ‘umano’ da non riuscire nemmeno a trattenerne un brandello in memoria. ‘Passerà’, mi ripetevo durante la giornata, in ufficio; cercavo di concentrarmi sulle piccole cose, sperando che la routine mi liberasse da quel senso di alienamento che invece, nonostante i miei sforzi, ritrovavo sempre al suo posto, immutato.
In pausa pranzo mi sorpresi a fissare la perfezione euclidea delle forme geometriche dei tavoli; cercavo ossessivamente gli angoli retti degli spigoli, aggrappandomi alla familiarità di quelle linee, così umane da darmi un po’ di sollievo. Uno stato d’animo che durò poco, il tempo di rendermi conto di aver trovato pace in una cosa neutra e scontata come la geometria del mondo… cosa mi era successo quella notte? Forse, nel tempo dilatato del sogno, avevo vissuto giorni, mesi o anni in una dimensione inaudita, dove il cervello umano non è in grado di decodificare coerentemente gli stimoli sensoriali dell’occhio…
Atterrito, mi diressi al bar per un caffè – ennesimo tentativo di aggrapparmi alla routine per uscire dalla morsa della follia – facendomi largo nella cappa pesante di nebbia che opprimeva quella maledetta giornata. Nella penombra verdognola che oscurava il sole e sfumava i bordi delle cose, mi accorsi che il mio malessere era amplificato dalla difficoltà di equilibrio e di percezione visiva – la nausea di chi ha perso l’orientamento e non riesce a trovare punti fermi. Sicuramente fu una mia impressione ma in quel momento sentii la terra sotto i miei piedi beccheggiare e rollare, mentre palazzi e lampioni ondulavano senza contorni, come attraversati da una lente… sono io ad aver fatto un incubo o sono forse io ad esser stato fatto da questo incubo?
Ormai la fune che mi teneva attaccato alla realtà si stava irrimediabilmente sfilacciando; presto sarei scivolato nella follia, dovevo almeno provare a fare uno sforzo per tornare a galla. Così, dominato dalla nausea e dall’orrore, funereo in volto, entrai nel bar e ordinai un caffè. Al bancone, sulla mia destra, c’erano due uomini. Non riuscii a vederli in volto, ma li sentii bisbigliare qualcosa in una lingua incomprensibile fatta di suoni mai ascoltati prima, una lingua malata e insopportabile… stavano pronunciando una litanìa… “Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn”… Non ne capivo il significato, ma quelle parole spalancarono definitivamente l’abisso dove si perse per sempre il mio senno. Le parole non possono descrivere le orride immagini che si susseguirono in poco tempo nella mia mente: posso solo dire che vidi un male ben oltre le rappresentazioni religiose del castigo Divino; vidi una dimensione aliena ben peggiore dell’Inferno, abitata da esseri antichi come l’universo.
Volevo scappare il più lontano possibile da lì, ma ero paralizzato, non so se dalla mostruosa cantilena o per la consapevolezza di aver perso definitivamente i contatti con la realtà. Guardai il caffè che stavo mischiando meccanicamente: quando avevo cominciato a farlo? Da quanto tempo lo stavo facendo? Dov’erano finiti i due uomini che mi stavano accanto? Lanciai un urlo e rovesciai il caffè bollente sulla mano destra della barista di fronte a me. Per tutta risposta, mi fissò con uno sguardo vacuo. Sembrava un cadavere, se non fosse che la vedevo in piedi davanti a me. Mi scusai con un filo di voce; mi rispose che comunque preferiva usare l’altra. Alzò il braccio sinistro: al posto della mano aveva dei tentacoli rugosi e umidicci che si torcevano come serpenti. Mi voltai e, incespicando sul mio stesso vomito, mi lanciai verso l’uscita, mentre la risata malsana della barista mi rimbombava nella testa.